martedì 30 aprile 2013

Primo maggio, su coraggio.




Rileggerei Hikmet così:

Il più bravo dei laureati è quello che non impieghiamo.
Il più creativo degli artigiani è quello che non apprezziamo.
Il più rosa dei lavori è quello che non riconosciamo.
Il più capace dei dipendenti è quello che non incentiviamo.
Il più bello dei “progetti” è quello che non ricompensiamo.
Il più nero dei lavori è quello che non coloriamo.
Il più talentuoso degli artisti  è quello che non paghiamo.
Il più stabile dei contratti è quello che non firmiamo.

E quello che si dovrebbe celebrare il 1 Maggio, non l’ho ancora trovato.



p.s. Art.35 della Costituzione- sì quella più bella del mondo- della Repubblica Italiana -sì, quella fondata sul lavoro.
"La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.
Cura la formazione e l'elevazione professionale dei lavoratori.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero. "


Sottofondo: Working on a dream corretto con un Bruce Springsteen d'annata.

domenica 14 aprile 2013

Del perchè il futuro è un dovere. Nostro. (Parte I)


 “Avevo proposto circa un anno e mezzo fa l’idea di un convegno di Futurologia che affrontasse non soltanto i problemi dell’economia e dell’industria, ma tutto l’intero arco delle questioni del nostro futuro (…) Ho usato quel termine per segnalare che oggi non sono entrati in discussione soltanto gli assetti produttivi e le strutture del capitalismo maturo, ma siamo di fronte ad una vera e propria crisi del mondo.” 
Era il 1983 e così raccontava Berlinguer, durante una storica intervista, ad Adornato. Sarebbero trascorsi tre anni e sarei nata io- protagonista e- paradossalmente- spettatrice- di una crisi profonda almeno quanto quella di cui discuteva Berlinguer, per cui mi sarei ritrovata a chiedermi - e a chiedere - se i tempi non fossero maturi per rilanciare l’idea di un convegno di Futurologia.
Nel 2013, come nel 1983, i temi sul tavolo sarebbero tanti.
Servirebbero molte sedie. Chi le occuperebbe?
Le risposte a questa domanda sono tra le ragioni di questo tentativo – più o meno tecnologico- risultato di una scommessa fatta dopo un lungo pranzo domenicale.

In uno slancio di ottimismo, assumiamo come premessa, che la progettazione del nostro futuro sia inserita nell’agenda politico-istituzionale. Ma di chi?
L’attuale classe dirigente italiana, dall’economia alla politica, dalla PA alle organizzazioni sindacali, finanche all’Università, ha un’età media pari a 59 anni[1].E' scientificamente provato che grazie alla dieta mediterranea nel Bel Paese si è giovani ben oltre la soglia dei 40 anni.





Fonte: Coldiretti, 2012

Messa da parte l'ironia, il de-giovanimento della nostra classe dirigente è positivamente correlato alla struttura demografica del nostro Paese, dove, i giovani rappresentano una minoranza, poco più del 20%, con previsioni non incoraggianti. Al 2020, infatti, si stima che la fascia di popolazione 18-49 anni raggiungerà circa 24 milioni, mentre gli over 50 saranno 27,5 milioni. Nel prossimo decennio, dunque, la classe di età 20-39 anni continuerà a rappresentare poco più del 20% degli abitanti nel Paese. 
Continuerà ad essere una minoranza. 
Ad oggi, tale distorsione della piramide demografica si traduce in una modesta capacità di influenzare i processi politici e decisionali, alterando il funzionamento dei meccanismi della democrazia, soprattutto nella sua forma rappresentativa. Il dato anagrafico, proprio come il sesso, ha finito col determinare un tetto di cristallo. Difficile, quando non impossibile, da infrangere. Considerando le previsioni sull’andamento demografico, il pericolo maggiore è – che proprio come è avvenuto con la questione di genere- la questione generazionale si cronicizzi, per due ragioni, tra loro relazionate. In primo luogo, noi-giovani- siamo oggetto e non soggetto dei processi decisionali, soprattutto nella formulazione delle politiche pubbliche, finanche quelle che più direttamente ci riguardano, dalla riforma del mercato del lavoro alla riforma dell’Università. Proprio come storicamente è accaduto a noi - donne. In seconda battuta, tale meccanismo impedisce – attraverso i canali tradizionali- di scardinare le rendite di posizione, spesso ottenute per anzianità e non per competenza, che pervadono tutte le sfere dello spazio pubblico, diventando la cifra degli ingranaggi del Paese, e, in molti casi, bloccandoli.
Capita – allora- che in molti casi non riusciamo neanche ad intravedere il tetto di cristallo, in parte perché è così opaco da non riuscire a percepirne la presenza, in parte perché non abbiamo un’ ascensore che ci accompagni a destinazione, neanche per scontrarcici.
L’Italia è –infatti- una Repubblica fondata sul familismo e sulla famiglia, tradizionale ammortizzatore del Paese. A family affair. E’ questo il titolo scelto dall’OCSE per fotografare la correlazione esistente tra il livello salariale e di educazione interparentale. Nel caso dell’Italia il valore della correlazione tra gli stipendi dei genitori e dei figli è pari a 0.5, sebbene, come sottolineato dallo stesso studio, i risultati scolastici non siano influenzati dalle performances economiche e/o scolastiche dei propri genitori. Il familismo si traduce, anzitutto, in un forte immobilismo intergenerazionale.


Fonte: OCSE, 2011




E se l’ascensore ci lascia a pian terreno, cerchiamo altre vie, usando le corde che abbiamo.
La famigerata fuga – di cervelli e non solo- diventa una scelta sempre più gettonata. D’altro canto- è quanto spesso ci sentiamo paternalisticamente suggerire, perché “si sa che la gente da buoni consigli, se non può più dare il cattivo esempio”. Ecco –quindi- riecheggiare nei bar, alle tavolate di famiglia (appunto!) e sulle colonne di giornali dei discorsi conditi da spolverate di “andate via” e dalla retorica di “questo non è un Paese per giovani[2]” e “non (vi)ci merita”[3]. D’altronde siamo la generazione Erasmus, che ha accorciato le distanze fisiche, con social network e voli Ryanair, pomeriggi passati a corsi di lingue ed estati passate all’estero. Cittadini del mondo, a cui, però, è negato l’accesso al godimento di una cittadinanza piena, civile, politica e sociale, da intendersi – cioè- in senso marshalliano[4].
Sebbene ci si riconosca la centralità nella progettazione del futuro del Paese, a cui lo stesso – quasi ex- Presidente della Repubblica decise di dedicare il discorso di fine anno del 2010  “ai più giovani, che vedono avvicinarsi il tempo delle scelte e cercano un’occupazione, cercano una strada(...) perché i problemi che essi sentono e si pongono per il futuro sono gli stessi che si pongono per il futuro dell’Italia”.
E allora il pessimismo insiste nel pormi una nuova domanda: come possiamo lasciare a chi ha contribuito alla costruzione di un palazzo privo di ascensore e dalle fondamenta instabili, di ripensarne la progettazione? Quando - senza vergogna- ammettono: “Avremmo voluto che fosse diverso e abbiamo fallito. Anche noi. Tu hai diritto di vivere diversamente, senza chiederti, ad esempio, se quello che dici o scrivi può disturbare qualcuno di questi mediocri che contano, col rischio di essere messo nel mirino, magari subdolamente, e trovarti emarginato senza capire perché.”
In sottofondo De Gregori canta "Battere e Levare", un pensiero alla quotidianità mia e di quanti mi circondano, e si fa sempre più strada una considerazione: se scegliere significa rimediare “all’imprevedibilità, alla caotica incertezza del futuro, è la facoltà di fare e mantenere delle promesse” – come scriveva Arendt- non possiamo non lasciare questo compito- per quanto oggi dannatamente gravoso- esclusivamente a chi già ha avuto la sua possibilità. Per questo penso sia necessario per noi giovani riacquisire consapevolezza della nostre potenzialità e del nostro dovere di pensare il futuro nostro e del nostro Paese - ed esagerando- della nostra Europa, facendone anzitutto una questione di scelta, la nostra scelta- da intendersi- nel senso arendtiano- come contraria alla rinuncia e all’indifferenza. Agitarci ed organizzarci, per usare - senza richiedere il permesso- lo sguardo DEI giovani e non SUI giovani. Essere soggetto e non più oggetto, per scalfire il tetto di cristallo, anche nel tentativo di scardinare gli ingranaggi che bloccano il nostro Paese e ipotecano un futuro che- in virtù del dato anagrafico- è un dovere, anzitutto nostro. 

To be continued.....


Sottofondo: De Gregori si muove tra le "Curve della memoria". 




[1] Nonostante il miglioramento dell’ultimo ventennio, solo il 15% è rappresentato da donne (Eurispes, 2011).
[2] Pierluigi Battista , “Non è un Paese per giovani”, Corriere della Sera 26 Giugno 2010.
[3] Piergiorgio Celli, “Figlio mio lascia questo Paese”, La Repubblica 30 Novembre 2009
[4] T.H. Marshall, Citizenship and social class, and other essays, Cambridge: Cambridge University Press, 1950